F#11: “La vita è come una scatola di cioccolatini…” (Forrest Gump, 1994 – Robert Zemeckis)

“Puttana eva!” – bofonchiò uscendo dal cinema. In quella serata uggiosa, il freddo già Milano,_corso_Buenos_Airespungente – ad ottobre appena cominciato! -, sembrava avere una particolare attitudine ad insinuarsi tra le pieghe degli abiti, sfruttando ogni più piccolo spiraglio, per giungere a trafiggerlo ovunque. Rabbrividì, una, due volte e poi si guardò intorno con inusitata lentezza, imbambolato dai riflessi bagnati delle luci sull’asfalto, indeciso su che cosa volesse davvero cercare. Avvertiva un senso di vuoto. Forse perché alla fine del film in sala era sceso un lungo silenzio. I film che ti lasciano senza fiato – che siano troppo belli o troppo brutti -, sono sempre quelli che ritardano nel passaggio da una proiezione all’altra, perché gli spettatori, soggiogati o stremati, non hanno la forza  o il coraggio di alzarsi e andarsene. Anche lui sarebbe rimasto, chiedendo un bis o pagando un nuovo biglietto, perché Forrest Gump non lo convinceva… Per lui, quello era il ritratto di un eroe-non-eroe. Di un “tardo” che avrebbe avuto bisogno di aiuto che invece aiutava entusiasticamente i “normali”, gli intelligenti, riuscendo anche a trovarsi al centro di svolte civili e sociali di portata epocale. “Stupido è chi lo stupido fa”, era stato il primo attentato alle sue ferree convinzioni, perché per lui uno stupido era uno stupido e basta. “Intelligenza più applicazione moltiplicato determinazione più grinta elevato all’ennesima potenza dell’impegno, uguale successo garantito“. Equazione infallibile. Che gli avevano insegnato. Che aveva assimilato. Che aveva  sperimentato e infine professato. E che Forrest Gump, quella sera, aveva candidamente demolito.

“Bah!“ – esclamò  ad alta voce convinto di aver appena trovato una chiave di lettura – “Primo… È un film… Secondo… È questione di culo!” – concluse, abbozzando un sorriso e tirando su il bavero dell’impermeabile che adesso si rimproverava di aver scelto, invece di un più caldo e confortevole paletot. Decise di saltare due fermate della metro e di camminare un po’, per rifletterci ancora su. Il traffico di Corso Buenos Aires era intenso anche a sera inoltrata ma, per fortuna, non caotico. Lo sarebbe diventato entro poche settimane, quando le vetrine, ora disadorne, tristi e buie, si sarebbero illuminate dei colori delle feste. Anche se quello era un anno particolare, che arrivava solo diciotto mesi dopo Tangentopoli e grandi sconvolgimenti politici e sociali, a Milano il Natale sarebbe giunto lo stesso e tutti avrebbero ugualmente mangiato panettone e stappato spumante.

Intravide un bar-tabacchi ancora aperto e decise di rifornirsi di sigarette, così non avrebbe rischiato di privarsene l’indomani mattina quando, dopo il caffè, per riportare la nicotina nel sangue ai tassi standard, avrebbe dovuto fumarne almeno tre, una dietro l’altra. Chiese un whiskey, due pacchetti di Marlboro e dei gettoni per telefonare. Dopo il drink avrebbe chiamato il suo capo. Tanto, erano abituati a sentirsi anche molto tardi, per mettere a punto gli impegni della mattina successiva. Un’azienda florida, quella per cui lavorava, diretta con passione e grande senso degli affari dalla famiglia che ne era proprietaria. Forniture medicali per ospedali, questo era il settore in cui l’azienda operava e primeggiava da diversi anni, non perdendo un solo appalto.

Si dimenticò di Forrest Gump, inserì un gettone nell’apparecchio e compose il numero. Il telefono squillò più a lungo del solito. Strano. Il suo capo – anche quand’era a casa -, non si concedeva distrazioni… era sempre sul pezzo. Finalmente, rispose una donna.

“Signora? C’è suo marito? Sono…” – disse, alzando il tono della voce per sovrastare un po’ il chiasso che nel locale aveva avuto un’improvvisa impennata di decibel. “Sì, sì… l’ho riconosciuta… “- l’interruppe lei.

Dopo un silenzio inspiegabile durato una manciata di secondi, la donna proseguì: “Senta… è successa… è successa una disgrazia… Mio marito… è morto…” – di nuovo silenzio, subito interrotto da qualche singhiozzo soffocato. “Purtroppo… ehm… si è suicidato, dopo aver ricevuto… notifica di un avviso di garanzia e di sequestro dei beni. Di tutti i beni!” – aggiunse lei, con voce infine rotta dall’emozione.

Non credeva alle proprie orecchie! Avrebbe voluto che lei ripetesse ancora, o che qualcuno lo destasse dal sogno – anzi incubo – che stava sicuramente vivendo. Abbozzò un “Non capisco…” – ma la signora riprese a parlare, questa volta dando prova di saper mantenere il controllo di sé: “L’azienda è ufficialmente chiusa. È stata affidata a mio padre, nominato custode giudiziario. Avrà notizie a breve. Non posso aggiungere altro. La saluto.”

ADR_2594Il secco scatto che indicava la chiusura della comunicazione, quasi fosse un innesco, procurò nella sua mente l’esplosione di mille congetture, il cui immediato, devastante effetto fu di sospingerlo sull’orlo di un abisso di sgomento. Per una frazione di secondo si vide dall’alto – proprio come quelle anime che abbandonino temporaneamente i corpi -, e poi rincorse se stesso che precipitava nel vuoto, rompendosi in pezzi che sembravano essere stati tenuti insieme fino a quel momento da una logica disarmante:  appalti – corruzione – inchiesta – tangentopoli – inquisizione – suicidio – chiusura azienda – lavoro perso. Forzò nervosamente la cornetta del telefono pubblico nel suo alloggiamento e uscì in fretta dal bar, sentendo addosso gli occhi del gestore che probabilmente avrebbe voluto dirgliene quattro, per come aveva trattato l’apparecchio.

limaA due passi dal locale, all’angolo di via Vitruvio, c’era la fermata della metro “Lima”. Decise di prendere il treno lì, e di tornare velocemente a casa da dove avrebbe chiamato i colleghi e i collaboratori, per sapere che cazzo stesse succedendo. Attese tre, forse quattro minuti fumando una sigaretta e poi salì sul treno, quasi vuoto. Sedette di fronte a una coppietta, probabilmente studenti universitari che viaggiavano mantenendo un’aria trasognata, tenendosi per mano.

Mentre lui rimuginava e si passava e ripassava le mani nei capelli, la ragazza estrasse dallo zainetto una piccola scatola di cioccolatini, l’aprì e ne offrì uno al suo ragazzo. Poi, resasi conto di essere fissata dall’uomo che le stava di fronte, sporse un po’ più la scatola e gli chiese educatamente: “Ne vuole uno?”

Lui la guardò e si scosse, sorprendendosi della domanda giacché, in realtà, non stava fissando lei né i cioccolatini: piuttosto guardava un punto indefinito davanti a sé, avendo la mente occupata dalla terrificante prospettiva di essere coinvolto a sua volta nello scandalo.

“No, grazie.” – rispose altrettanto educatamente.

Si lasciò scivolare sul sedile e appoggiò la testa sulla fredda paratia del vagone ferroviario. Di eventuali affari loschi, tangenti e appalti truccati, lui non ne aveva mai saputo nulla. Abbozzò un sorriso nel medesimo istante in cui si rese conto di aver capito, finalmente, la genuina logica del “tardo” Forrest Gump:

“La vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”.

Mise a fuoco la scena iniziale del film. La piuma riprendeva a danzare nel cielo. A cadere e rialzarsi… ancora, e ancora…  E via… di nuovo in alto, sorretta dalla forza di sofferenze che non conobbero mai consapevolezza.

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L’anti-eroe, il non-eroe, l’eroe. Questo è Forrest Gump. Paradosso tra i paradossi. Perfino incosciente protagonista di battaglie per i diritti civili. Con un quoziente intellettivo superiore a quello della media dei “tardi” e molto prossimo all’intelligenza, non a quella assoluta bensì a quella relativa. Innamorato perso di Jenny, il suo “burro sul pane”. ”Run Forrest run” e salverà la vita a se stesso e ai suoi commilitoni. “Run Forrest run”! E non si fermerà per anni. Qualunque cosa facesse Forrest, riusciva sempre bene. Incontrava uomini potenti, diventava ricco e scopriva perfino di avere un figlio, per fortuna intelligente in assoluto, concepito con la sua Jenny , che sarebbe morta presto. E sulla cui tomba Forrest avrebbe parlato con quel cuore puro che solo la sua “tarda” mente gli consentiva di mantenere. Le avrebbe anche lasciato una lettera, quella del figlio.

La pellicola fu premiata con diversi Oscar nel 1995. Tom Hanks vinse quello di migliore attore protagonista. La colonna sonora, sapientemente assemblata scegliendo i  migliori brani rock e blues degli anni in cui è ambientato il film, è, a mio avviso, il compendio delle istanze sociali e civili della generazione degli anni ’70.


12 risposte a "F#11: “La vita è come una scatola di cioccolatini…” (Forrest Gump, 1994 – Robert Zemeckis)"

  1. Bel film e bravo Tom Hanks. La mamma diceva: “Non accettare nulla dagli sconosciuti!”. Tu pensa se qualche disgraziato leccasse tutti i cioccolatini per poi rimetterli nella scatola in attesa della preda. O mentre ne sta prendendo uno starnutisce… Mi vengono i brividi!

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    1. Ahaha questa è bellissima… Grazie! Una volta mi hanno raccontato come rinfrescano i datteri raccolti e ammucchiati nelle zone desertiche…

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  2. Buongiorno caro Piero, il mare com’è? Sapessi come ti invidio, salutami sua maestà il mare! Non ho dimenticato di risponderti su quel tuo complesso commento…ti risponderò, forse con un post. Grazie del tuo augurio, buona giornata Giusy

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    1. Buongiorno Carissima Giusy… oggi è appena mosso… dopo alcuni giorni di caldo torrido abbiamo avuto vento e pioggia. Ma già stiamo tornando alle condizioni migliori anche perché in una giornata scialba come quella odierna, per fortuna, fanno capolino persone come te. Un abbraccio a te! Buona giornata. Piero

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  3. Ho visto più volte questo film, proprio per il coraggio che trasmette. Forrest abbatte tutte le barriere della vita, soprattutto quelle radicate negli ottusi cervelli dei cosiddetti normali…e la vita è proprio come un cioccolatino, non sai quello che ti capita. Un abbraccio, Giusy

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