Omnia amor vincit (L’Amore vince su tutto).

Romana era molto bella. Se non fosse nata in quel paesino sperduto, se fosse nata a Roma o a Milano, sarebbe diventata una celebrità. Glielo ripetevano sin da quando era bambina, ma lei lo aveva capito solo quando la prorompente femminilità esplose sotto i castigatissimi abiti che sua madre le imponeva d’indossare. E glielo aveva confermato, già durante l’adolescenza, l’interminabile processione di contadini, giovani e meno giovani, che venivano a chiederla in sposa. Ma nessuno di quei sempliciotti aveva mai acceso il suo interesse e, per fortuna, ogni volta le era bastato fare gli occhioni tristi al babbo, per evitare di essere maritata senza amore.
Romana, infatti, aveva coltivato altri sogni. E aveva disegnato per sé altri progetti. Perché Romana il suo futuro lo aveva letto nei romanzi che erano appartenuti a sua nonna, e che aveva trovato in un baule in soffitta. Nelle storie d’amore della sua autrice preferita, Liala, e in qualche vetusto disco 78 giri che ancora riusciva a gracchiare struggenti canzoni come “Ti parlerò d’amor” cantata da Wanda Osiris, Romana aveva sognato una vita in posti che rispetto a quello misero in cui era nata, sembravano davvero l’Eden.
Ma la realtà era ben altra. Per tutta l’adolescenza le era sembrato possibile cambiare la propria vita e perciò si era sacrificata, sobbarcandosi levatacce e lunghi tragitti in corriera per raggiungere la scuola, infine conseguendo brillantemente la maturità. Ma il sogno di frequentare l’università era stato perentoriamente infranto da un padre che aveva deciso di assoggettarla definitivamente alla famiglia, affidandole i mestieri di casa, il governo del bestiame, la cura delle galline. Le poche parole che l’autoritario genitore usò per comunicarglielo, graffiarono in profondità l’anima di Romana che nel medesimo istante scelse di  difenderla, inspessendola di uno scudo che trovava forza in un giuramento solenne: non avrebbe mai amato o sposato, non in quel luogo dimenticato da tutti gli déi.
Gli anni dedicati alla famiglia consumarono i sogni di Romana, che andò via via mostrandosi sempre più aggressiva e scostante, fino al punto di far cessare la processione dei pretendenti.  Ma il giorno stesso in cui Romana compiva ventitré anni, il borgo fu sconvolto da una clamorosa novità. L’ultimo erede del nobile che fino agli albori del XX secolo aveva posseduto quelle terre e le anime che le abitavano – non s’era mai capito se un marchese o un conte -, era tornato, andando ad abitare nella grande villa semidiroccata sulla sommità della collina. Per giorni e giorni le leggende e i pettegolezzi si rincorsero, saltando di bocca in bocca sempre più arricchiti di improbabili dettagli. Nell’immaginario collettivo dei paesani, il rampollo dell’antica e ricca famiglia cambiava ogni volta sembianze e storia, in funzione della qualità del vino tracannato davanti al caminetto della taverna o intorno ai bracieri delle povere case che, nelle fredde notti invernali, s’allungavano in lugubri ombre che le facevano sembrare adagiate l’una sull’altra.
Mentre la leggenda montava, diventando l’argomento preferito da tutti, la fantasia di Romana si accendeva, trasformando quell’uomo nuovo, da lei mai visto, nel simbolo stesso dei suoi sogni più audaci. Il suo aspetto – che Romana immaginava fiero -, la sua cultura che – ne era sicura – sarebbe stata immensa, il suo fascino – che fantasticava in grado di propiziare appassionanti storie d’amore -, si materializzavano nel duro cuscino che ormai ogni notte, nella solitudine della propria camera, Romana attirava e teneva stretto a sé.
Fu una domenica mattina che Romana prese il coraggio a due mani e si avventurò su per la collina, con il cuore in tumulto e la malcelata paura di non sapere esattamente chi o cosa avrebbe incontrato una volta giunta a destinazione, lasciando ai lati del suo incerto incedere gli alberi che vestivano un po’ in anticipo i fiori della primavera.
Nulla di quanto vide arrivando, suggeriva che quel luogo fosse abitato. Il vasto appezzamento di terra era circondato da uno steccato fatiscente. La terra era incolta e le erbacce l’avevano invasa quasi completamente e, qua e là, mentre alcuni alberi da frutta ancora resistevano all’incuria, provandosi ad emettere timidamente qualche fiore, s’intravedevano resti di carcasse di animali.
All’improvviso sentì un fruscio alle sue spalle. Voltatasi di scatto, vide un uomo, molto più vecchio di lei. Ma era più bello di una statua greca. Alto, ben proporzionato, dai tratti regolari, dall’aspetto fiero e nobile, aveva una capigliatura bianca che scendeva vaporosa, quasi confondendosi con la folta barba. Gli occhi erano penetranti, più azzurri di qualsiasi cielo terso. L’incarnato scuro, bruciato forse dai soli e dai mari lontani che probabilmente erano stati teatro delle sue avventure. I denti bianchissimi e perfetti illuminavano un sorriso dolce e rassicurante.
Lo amò sin da quel momento, e lo amò per il modo gentile con cui egli pronunciò il proprio nome, Giacomo, e le disse di essere un pittore. Poi lo amò perdutamente per gli sguardi, gli abbracci, i baci, le carezze, che lui seppe usare per condurla in paradiso.
Molto spesso, ancora madidi dell’amore che avevano fatto in quel modo passionale che solo loro due sapevano, Romana e Giacomo rievocavano quel primo incontro. Ridevano di gusto dell’esclamazione di sorpresa di Romana, e ricordavano con tenerezza come si sciolse nell’abbraccio che fece di lei una donna. Ma altre volte, quando i sensi erano appagati o Romana aveva terminato di posare per Giacomo, sovvenivano i tristi pensieri sulle dicerie che nel paese si andavano moltiplicando, e che riguardavano due misteriosi amanti clandestini e peccatori.  Solo il caldo e protettivo abbraccio di Giacomo riusciva a infondere forza a Romana, che doveva sopportare il pesante fardello della maldicenza, soprattutto la domenica mattina in chiesa. Proprio là, i pregiudizi mettevano a tacere ogni sentimento di umana comprensione;  proprio là, tutti la guardavano storto e bisbigliavano, forse insulti incomprensibili. Ormai non c’era da girarci troppo intorno: per tutti lei era diventata la puttana del conte – o del marchese… che differenza avrebbe fatto?
Ormai andava avanti da quasi due anni, e Giacomo riusciva a rendere meraviglioso ogni singolo istante in cui riuscivano a stare insieme. Romana ne era talmente innamorata che non vederlo almeno una volta giorno era come farsi mancare l’aria, e così le assenze dai campi e il disinteresse per i compiti che le erano stati affidati, si fecero sempre più frequenti e con effetti sempre più evidenti. Soprattutto per le galline che avevano un aspetto tanto denutrito da indurre suo padre a consultare un veterinario. Il quale, per fortuna, attribuì alla qualità del mangime la causa del deperimento.
Per quanto tempo ancora Romana sarebbe riuscita ad evitare che i sospetti si tramutassero in certezze?
La risposta arrivò una domenica d’estate.
Il sole alto nel cielo del mezzogiorno picchiava sulle case e sulle teste dei popolani  che defluivano dalla chiesa, sollevati per aver assolto ai doveri religiosi e aver rinnovato l’auspicata salvezza dell’anima. Il fiume quasi monocolore dei vestiti della festa si muoveva lento, ammorbando l’aria di un pungente odore di naftalina, e si dirigeva verso la piazza dove ciascuno dei paesani avrebbe sostato ancora un po’, prima di proseguire per casa a consumare l’atteso pranzo domenicale. Ma proprio come un corso d’acqua che trovi un ostacolo, la fiumana di persone s’andò ammassando improvvisamente sotto il monumento ai caduti di tutte le guerre e, a mano a mano che il gruppo s’infoltiva, un brusio insistente si sostituiva alle battute e alle risate. Quelli che erano rimasti più indietro premevano sempre più forte sulla testa del gruppo, cercando di superare spalle e teste che impedivano la visuale e s’affannavano a chiedere spiegazioni, ottenendo in tutta risposta solo imbarazzati colpetti di tosse.
Ai piedi del monumento era stato deposto un olio su tela che raffigurava una ragazza. Lo sguardo trasognato che forse tradiva qualche preoccupazione, si posava su tre rose rosa, riposte in un vaso di vetro lievemente sfiorato da un dito. Il corpo nudo mostrava la florida femminilità di una giovane donna, sui venti, venticinque anni. Là dove si intravedeva la peluria del pube, campeggiava una scritta posticcia di vernice rossa che deturpava la delicata sensualità del dipinto con un insulto: “TROIA”.
Era uno dei dipinti in cui Romana aveva posato per il suo Giacomo. Trafugato da chissà chi, chissà come, chissà quando, ed esposto, forse per vendetta o per punizione, al pubblico ludibrio.
Nel giro di qualche minuto, spintonando questo o quello, portando con sé un lenzuolo, il parroco si fece largo. Raggiunto e coperto accuratamente il dipinto, si voltò verso la folla che si era nel frattempo ammutolita. Sostenne più di un sguardo, opponendovi il suo che pareva minacciare terribili punizioni divine, tanto che molte teste e molti occhi s’abbassarono di colpo, e le comari dalle tuniche color pece, presero a segnarsi febbrilmente, come se avessero visto il diavolo in persona.
Mentre il parroco stava per annunciare che lo spettacolo era finito e che tutti ormai dovevano tornarsene a casa, dal fondo della strada s’alzò un nuovo brusio, che si faceva più rumoroso e più insistente a mano a mano che la folla si apriva in due.
Nel mezzo veniva Giacomo, il portamento altero, il passo deciso. Teneva abbracciata Romana, che quasi nascondeva la testa sul suo petto e rimaneva abbarbicata a lui, serrandosi stretta ai suoi fianchi. A mano a mano che la coppia procedeva, qualcuno si sporgeva provando a lanciare sguardi di sfida al discendente dell’odiato padrone, alcuni si limitavano a rivolgere alla coppia occhiate di disgusto, altri sputavano davanti ai loro passi, mentre le comari smettevano di segnarsi e ostentavano il loro disprezzo, lanciando insulti a labbra serrate.
Giunti in prossimità della tela, Giacomo e Romana si fermarono e voltarono. Rimanendo per interminabili istanti esposti a quella comunità che non si dava pena di nascondere l’inutile e gratuito  biasimo. Improvvisamente dalla folla spuntò il padre di Romana, con il piglio di chi sembrava essere intenzionato a scagliarsi contro Giacomo o contro tutti e due. Ma giunto ad un passo dalla coppia, dovette arrestarsi, incontrando lo sguardo fiero di Giacomo, che sembrò smontare ogni furia, come se gli avesse intimato silenziosamente di non avvicinarsi ancora né di profferire una sola parola.
Mentre il padre di Romana rimaneva ammutolito e cristallizzato, Giacomo strappò il lenzuolo, sollevò bene in alto il dipinto e arringò la folla con tono potente e aspro: “Guardate! Guardate bene! Questa donna è il mio amore… Il mio amore! Ma questa scritta è la vostra vergogna e la vostra ignoranza, celebrate dal senso del peccato che voi stessi così impudentemente rappresentate! Guardate ancora! Un’ultima volta… Perché non ci vedrete mai più”.
Giacomo abbassò la tela, la ricoprì e la mise sotto un braccio. Tese la mano libera a Romana e, attirandola delicatamente al suo fianco, la condusse, avviandosi nella direzione opposta da cui erano venuti.
Due ragazzacci furono come sputati fuori dall’ammutolita moltitudine e presero a ridere alle spalle di Romana e Giacomo, mimando sguaiatamente i gesti dell’amore. Nessuno in verità diede loro importanza ma riuscirono a guadagnarsi un paio di spintoni da parte di un vecchio contadino che, rimasto isolato dal gruppo, si tolse la coppola e fissando la coppia che s’allontanava, proclamò: “Omnia amor vincit”.
“Ch’ha detto?” – domandò uno dei paesani a quello che gli stava più vicino.
“Boh! Ma tu dai retta a quello lì? Lo sai che è sempre stato un po’…” – rispose l’altro, picchiettandosi più volte una tempia con l’indice.
Giacomo e Romana erano ormai lontani.
Nessuno li vide mai più.

53 risposte a "Omnia amor vincit (L’Amore vince su tutto)."

  1. Ma ti ho inviato il commento stamattina, dov’è? Vabbe’ lo riscrivo. Ti voglio dire che in realtà anche io ti sto aspettando nel mio! Non preoccuparti se gli ultimi articoli sono particolari, poi liberamente dissentire! Abbiamo chiacchierato tanto sulla reincarnazione…e allora, io ci tengo alla tua amicizia e non voglio di certo uno stupido servilismo dagli amici! Ciao, Giusy

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    1. Cara Giusy, ti chiedo scusa ma non è stata una giornata semplice dal punto di vista familiare. Non pensare che la nostra amicizia sia in discussione né fondata su futili motivi. Grazie. Un abbraccio. Piero

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  2. Sono l’ultima arrivata…hanno detto tutto gli altri! Comunque hai dimostrato che la tua penna è guidata dal cuore. Ti abbraccio, Giusy

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    1. Cara Giusy in realtà ti aspettavo… e la cosa importante è che tu sia venuta a farmi visita e che il racconto ti sia piaciuto. Grazie per il dolce pensiero… Un abbraccio a te. Piero

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      1. Che bello mi aspettavi! Allora ricambia la visita…si lo so, per molti quello che sto scrivendo ora può essere pesante…quando vedo però 60 visualizzazioni al giorno da mezzo mondo, non so più cosa pensare…ti confesso una cosa: anch’io aspettavo una tua visita. Ciao Giusy

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        1. Cara Giusy, è stata una giornata campale con impegni familiari impegnativi. Manterrò la promessa di venire a trovarti. A presto. Piero

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      2. Caro Piero, ti confesso una cosa: anch’io sto aspettando la tua visita nel mio blog! Lo so, sto trattando un argomento che non ha tutti può piacere, ma io sono aperta anche al dissenso…e poi con te non ho nessuna intenzione di mettermi a discutere, ti abbraccio Giusy

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  3. Una storia d’amore pulita dove vince il rispetto che in amore è priorità ,e dove perde l’ignoranza e la stupidità della gente. Un racconto che prende sin dall’inizio in maniera coinvolgente e che si conclude come in tutte le fiabe nel miglior modo possibile. Complimenti caro Piero. Davvero bravo. Isabella

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    1. Grazie Isabella! Ognuno di noi meriterebbe la propria fiaba… spesso però siamo davvero bravi a trasformarle in tutt’altro. Grazie ancora per la visita e i complimenti. Ciao, Piero.

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  4. Che bello Piero…una favola d’altri tempi che ti trascina nella lettura riga dopo riga…ambientato in un passato che si crede lontano ma che invece risulta essere ancora troppo vicino. Con un titolo che anticipa fin troppo bene i contenuti del post. Una storia che vorrei aver scritto io… Un abbraccio di cuore…

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        1. Sì ma io scrivo un romanzo ma tu in poche righe centri talmente bene l’obiettivo che sembra tu possieda dispositivi di precisione che inchiappetterebbero una mosca…

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          1. ahahahaha vedi che riesci a fare un commento da top blogger in poche righe? Io non ne sono capace…ma leggerti è davvero un piacere, sono serissimo… e adesso basta con sti complimenti reciproci…mi aspetto un bell’insulto in barese…ahahahahaha

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            1. Giammai mi permetterei! Piuttosto se ti dovesse venire in mente di fare un salto da queste parti, al di là del piacere di un incontro, portati una tuta con impianto di condizionamento incorporato… Iosce s’ more d’ call…

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    1. Cara Dani, una tua visita fa splendere il sole anche più di quanto – in questi giorni – splenda… grazie… L’amore è un’energia che non si esaurisce mai. Credo che dovremmo essere più “svegli” e “coraggiosi” nel saperla utilizzare. Per la nostra e altrui felicità. Un abbraccio.

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  5. Con questo racconto sei riuscito a parlare di cose che a volte le donne si lamentano di non trovare negli uomini: passione, divertimento, amore, protezione. Forse il principe azzurro è questo e non il ballerino che raccoglie la scarpa persa e poi non ha neppure il buon gusto di riconoscere l’amata… Il racconto già di per sè ben scritto, si completa col desiderio del protagonista di agire per la sua donna, e non come una sua proprietà, ma come una creatura che merita rispetto. Non ha indugiato ma si è mostrato pronto all’istante.
    Non c’è idealizzazione in ciò che hai scritto, ma convinzione e fiducia nell’amore vero.
    Grazie per averlo scritto e per averlo fatto così bene.

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    1. Ciao Dora, ti ringrazio molto per il bellissimo commento e per il lusinghiero giudizio sul racconto. Mi complimento anche io con te perché hai un occhio critico davvero invidiabile. Sono ammirato. Un abbraccio. Piero

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