Giallo d’estate

Andrea usciva da una relazione con una donna che lo aveva lasciato improvvisamente, facendo perdere le sue tracce. Di lei non aveva mai saputo granché, se non che si chiamava Luisa e che lo amava follemente o almeno questo gli aveva fatto credere. Sin dal primo momento, infatti, la misteriosa Luisa aveva posto una condizione affinché la storia potesse proseguire: non chiedere né rivelare alcun dettaglio delle rispettive vite private. In altri termini, un’intensa storia d’amore e di sesso, da consumarsi in quei motel dove – allo stesso modo – non si facevano domande e soprattutto non chiedevano documenti. Dopo circa un anno dalla sparizione, sempre più incapace di elaborare l’abbandono, Andrea decise di sottoporsi a terapia ricorrendo all’aiuto di un bravo analista. Si affidò così alle cure di Marco, uno psichiatra molto affermato. Nel giro di poche settimane e di sedute, Andrea riconquistò finalmente la serenità.
Complici la rapida guarigione e la comune passione per il tennis, tra i due, nel tempo, si sviluppò un’amicizia che Marco accettò contravvenendo ai principi etici della sua professione. In pochi mesi presero a frequentarsi, a giocare a tennis sempre più spesso e ad affiatarsi a tal punto da costituire una forte coppia di doppio, in grado di vincere i tornei del circolo cui erano iscritti. Arrivò così il giorno in cui quell’amicizia divenne tanto salda da richiederne il suggello con una cena a casa di Marco e di Nicoletta, sua moglie.
Andrea ora si tormentava le mani, mentre aspettava nella fredda stanza degli interrogatori della Questura. Lì dentro l’aria puzzava di crimine e l’attesa del giudice che “voleva sentirlo” – così gli avevano detto i poliziotti che erano andati a prelevarlo a casa -, costituiva di per sé una punizione, per qualsiasi colpa avesse mai commesso, anche la più banale. D’altra parte alle sue insistenti domande, i poliziotti avevano ripetuto di stare tranquillo e di collaborare, che era la cosa più sensata da fare. Così, mentre aspettava e si lambiccava il cervello, si convinceva sempre di più di essere stato convocato per la morte di Nicoletta, scoperta due giorni dopo la cena, risalente ormai a tre settimane addietro.
Ora provava a immaginare quale implacabile magistrato sarebbe venuto a interrogarlo. Soprattutto si augurava di riuscire a dimostrargli che lui non c’entrava. Certo, avrebbe dovuto spiegargli che solo per un errore di valutazione, lui non era corso ad informare gli inquirenti di essere stato ospite della coppia, la sera della tragedia. E che solo per un senso del pudore non si era premurato di chiamare Marco, dopo aver appreso la notizia.
Il magistrato finalmente arrivò. Era un uomo smilzo e alto, dai tratti del viso affilati come lame e dagli occhi di ghiaccio. Era arrivato mantenendo un’espressione grave, parlottando con un funzionario di Polizia e seguito da un omino anziano e curvo che teneva il capo chino e continuava ad asciugarsi gli angoli della bocca, quasi avesse l’acquolina per ciò che si stava accingendo a fare: ascoltare e verbalizzare un’altra atrocità.
“Perché lo ha fatto?” – esordì secco il magistrato. Ad Andrea cadde il mondo addosso. Si sentì precipitare improvvisamente in un’atmosfera kafkiana in cui non v’erano dubbi che lui fosse già imputato, a prescindere da ogni tentativo di spiegare le circostanze.
Nicoletta era stata trovata morta nel pomeriggio successivo alla cena, con il cranio fracassato da una delle sculture della collezione privata di Marco. Il quale risultava essersi allontanato dall’abitazione prima della morte della moglie: la sua auto aveva lasciato segni del suo passaggio ad un paio di caselli autostradali. Un conoscente di Marco aveva testimoniato che quella sera non poteva esserci stata alcuna cena perché con lui aveva raggiunto il suo casolare, a cinquanta chilometri da Roma, e che lì si erano trattenuti fino all’indomani sera, per andare a pesca. A casa di Andrea fu rinvenuta una camicia, su cui vi erano diversi capelli e tracce biologiche attribuibili alla donna.
Andrea provò a convincere il giudice che la cena c’era stata davvero e che nella toilette della camera da letto, dove erano state trovate le sue tracce di DNA, si era recato su indicazione di Marco, che stranamente non gli aveva permesso l’utilizzo dell’altra di servizio.  Provò anche a insistere che le sue impronte sull’arma del delitto si trovavano perché Marco, prima di lasciarlo tornare a casa, volle mostrargli la collezione di sculture, insistendo che le prendesse e che le rigirasse in mano, una ad una, per ammirarne la pregevole fattura. Protestò infine che la  camicia era quella che aveva prestato a Marco a termine di una partita di tennis e che gli era stata restituita quella sera stessa, inspiegabilmente stropicciata e apparentemente sporca.
Ma il castello accusatorio era solido e l’inquirente non si lasciò convincere. Otto ore dopo, Andrea era in manette e veniva trasferito in carcere: imputato per il delitto di Nicoletta. Il suo avvocato, che era arrivato a interrogatorio già iniziato, continuava a consolarlo inutilmente, assicurandogli che avrebbe trovato il modo di scagionarlo. Percorrendo l’angusto corridoio che lo separava dal furgone cellulare che lo avrebbe portato via, incrociò Marco. Andrea sgranò gli occhi, implorandolo così di aiutarlo a venir fuori da quel guaio immane. Ma l’amico tirò dritto, indirizzandogli solo uno sguardo traboccante di disprezzo.
Al processo la difesa tentò di dimostrare la fredda lucidità e determinazione di Marco di uccidere la moglie e di incastrare Andrea. L’improvviso cambiamento d’umore della coppia e in particolare di Marco, appena Andrea incontrò Nicoletta, però non era dimostrabile. Il fatto che Marco si fosse allontanato per mezz’ora soltanto, a suo dire per spostare l’autovettura da una zona in cui il parcheggio non era consentito, era confutato dalla testimonianza dell’altro amico. Il dubbio che lo spezzone di filmato, registrato dal sistema di sorveglianza interna della casa, che riprendeva il diverbio tra Nicoletta e Andrea, fosse stranamente l’unico disponibile mentre tutto il resto era andato perduto, non attecchì. Nella sua testimonianza, Andrea ammise il diverbio con Nicoletta ma giurò che appena lei gli intimò di non provare a interferire con la sua vita e di andarsene appena il marito fosse tornato, si calmò e sedette sul divano ad aspettare il ritorno di Marco. Il tentativo di dimostrare la condotta discutibile e non esattamente irreprensibile della donna, non fu preso in considerazione.
Invece l’accusa insinuò brillantemente il dubbio che Andrea avesse architettato e pianificato l’omicidio sin da quando aveva intrapreso l’analisi con Marco, avendo probabilmente già scoperto che Luisa e Nicoletta erano la stessa persona.
Così Andrea fu condannato all’ergastolo e sta scontando la pena. In carcere è schivo e taciturno e preferisce non parlare di quella brutta storia. Piuttosto studia per laurearsi in Giurisprudenza. Perché ha giurato che riuscirà a dimostrare la sua innocenza, un giorno o l’altro.
Marco continua la sua brillante professione di psichiatra. E fa una bella vita, a quanto dicono, accompagnandosi con nuove e sempre più procaci giovani donne dell’Est europeo.

47 risposte a "Giallo d’estate"

  1. L’ho letto pensandolo un soggetto cinematografico, perché si presta benissimo. Secondo me ne uscirebbe un bel corto (ci hai pensato?). Nella mia immaginazione lo vedo molto dark e psichedelico e il personaggio di Marco troverebbe la sua giusta collocazione – Marco mi piace. Lo preferisco ad Andrea x la resa espressiva che potrebbe avere sul grande schermo.

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    1. Ciao Francesco, a dirti il vero no non ci avevo pensato. Credo che il tuo sia un suggerimento di cui tenere molto conto… magari provo a pensare al seguito e chissà… Grazie davvero.

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    1. Sei la benvenuta… sarò onorato delle tue visite. Se posso permettermi di consigliarti, credo che nei racconti mi sia espresso meglio che in altre pubblicazioni. Buonanotte e grazie ancora, Giuseppina. Ciao, Piero

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  2. E quindi anche il buon Dott. Carofiglio può andare in pensione… Bravo Piero! Questa tua vena giallistica mi piace. Bella ambientazione e trama ben ordita in pochissimo spazio… altra perla da infilare nella collana dei tuoi racconti… Tutto a posto dalle tue parti?

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  3. Lo stacco della narrazione allo scenario questura è impostato male, secondo me, perché interrompe la lettura, costringendo il lettore a dover rileggere attentamente per capire la situazione.
    Per il resto è geniale e spiazzante, l’esempio pratico che chi la spunta sempre è il cattivo!!
    Anche perché hai avuto l’abilità di narrare in modo chiaro (a parte lo stacco di cui sopra) lasciando parecchi particolari nascosti, parecchia libertà ai lettori di giocare con tutto quello che non hai detto.

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      1. L’ho trovato piacevole alla lettura. A dir la mia, lo stacco lo trovo accattivante, ti lascia quel senso di “smarrimento” che solo continuando a leggere si può sanare, salvo perderlo di nuovo, finale spiazzante!
        A.

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    1. Grazie cara Mistral!
      Già, sembra proprio che lo psichiatra abbia ordito un astuto complotto!
      Ti ringrazio come sempre per la visita e per i tuoi commenti.
      Un abbraccio,
      Piero

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